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Storia

a cura di Igino Addari


La storia di Castiglione Messer Raimondo affonda le sue radici in epoca pre-romana. Il toponimo deriva dal latino Medioevale castellio-onis diminutivo di castellum ossia piccolo castello ed  equivale a fortezza, paese cinto di mura. La successiva integrazione della denominazione con “Meser Raimondo”  si deve all'identificazione del feudo con Raimondo Caldora che ne divenne proprietario nel 1414.

Fin dal periodo italico Castiglione costituì un insediamento importante, edificato al confine tra il territorio Vestino e quello Pretuzio, per il controllo della vallata del fiume Fino.
A riprova degli antichissimi insediamenti, a circa tre kilometri di distanza dal centro abitato in direzione sud-est, in località Colle San Giorgio, sono stati rinvenuti i resti di un tempio italico preromano con frammenti di statue che ne ornavano il frontale e copiosi resti fittili. Attualmente i resti dell'antico luogo di culto si confondono con la struttura della chiesa medievale di S. Maria ad Luquianum.

Le prime notizie scritte su Castiglione Messer Raimondo si rintracciano nel Catalogus Baronum, risalente al periodo normanno, dal quale risulta che, dal 1150 al 1168 periodo di stesura del Catalogus, Galgano di Collepietro detiene Castillionem.  

 

Nel XIII secolo Castillionum viene assegnato dal re di Napoli Carlo I d'Angiò al Giustizierato d'Abruzzo oltre il Pescara. Nel XV secolo, dopo una parentesi in cui nel 1414 diventa proprietà di Raimondo Caldora, Castiglione passa tra i possedimenti della famiglia Acquaviva. L'attribuzione di   Castiglionum a Giosia d'Acquaviva, conte di San Flaviano, viene ratificata, nel 1446, con provvedimento del Re di Napoli e di Sicilia Alfonso V d'Aragona.

Nel XV secolo, dopo una parentesi in cui nel 1414 diventa proprietà di Raimondo Caldora, Castiglione passa tra i possedimenti della famiglia Acquaviva. L'attribuzione di   Castiglionum a Giosia d'Acquaviva, conte di San Flaviano, viene ratificata, nel 1446, con provvedimento del Re di Napoli e di Sicilia Alfonso V d'Aragona.

Il 21 aprile 1526 vengono emanati da Giovan Francesco Acquaviva, figlio di Andrea Matteo III, i Capitoli Castiglionesi, redatti dal notaio Nicola Petrei sulla base di quelli emanati qualche anno prima ad Atri.

Nei capitoli viene sancito che il Duca può decidere le cause penali e civili, sia in primo che in secondo grado, comminando anche la pena di morte (jus sanguinis). Ha altresì il potere di concedere la grazia e di ridurre la pena.  Altre regole importanti riguardano l'organizzazione, la tutela dei beni e le pene previste per i reati alle persone e alle cose. 

I dati sulla popolazione danno un'idea dello sviluppo di Castiglione Messer Raimondo sotto il dominio degli Acquaviva. Nel 1532 Castiglione conta 91 fuochi. Questa unità di misura corrisponde a un nucleo convivente residente. Dopo alcuni incrementi anche consistenti, con un picco di 151 fuochi nel 1648, nel 1669 vengono censiti 119 fuochi.

Nel 1759 il notaio Alessandro Marucci viene incaricato di redigere una nuova copia dei Capitoli Castiglionesi in quanto l'originale del 1526 aveva subito un notevole deterioramento.

Nel 1760, alla morte della duchessa di Atri Isabella Acquaviva d'Aragona Strozzi e con il sequestro  della sua eredità, il distretto di Castiglione e Montesecco viene devoluto alla Regia Corte e  Gaspare Antonio Perazza, di Città Sant'Angelo, ne viene nominato governatore.

Nell'Ottocento, prima nel periodo francese e poi sotto la restaurazione borbonica, Castiglione è uno dei centri dove la carboneria è più attiva e  Giandomenico Toro è a capo dei cospiratori. Nel 1814, periodo di dominazione francese, viene catturato e condannato a morte ma nel 1815, con la restaurazione e il ritorno al trono dei Borboni, ottiene la grazia. Continuerà a lottare per l'unità d'Italia partecipando ai moti insurrezionali del 1848 e morirà  il 12 febbraio 1865, quasi centenario, dopo aver visto realizzati i suoi ideali. 

La storia di Castiglione è testimoniata dai suoi pregevoli monumenti  civili e religiosi che ne raccontano lo sviluppo da insediamento italico a castello medievale fortificato.

Chiesa di San Donato

È la chiesa madre e la sua costruzione inizia nella seconda metà del XVIII secolo. In origine viene intitolata a San Nicola vescovo. Dal 1999 è dedicata a San Donato Martire di cui custodisce le reliquie recuperate dalle catacombe sulla via Tiburtina.
Si erge sulla sommità del colle sul quale è edificato il nucleo centrale del  paese, nella stessa posizione in cui precedentemente esisteva un castello. 
Ha una struttura a “croce latina”, con una cupola nel punto di incrocio dei bracci, e una sola abside semicircolare. Tra gli arredi sacri, conservati all'interno, è pregevole una croce professionale in argento finemente lavorato risalente alla prima metà del XVI secolo, prodotto dalla scuola orafa di Guardiagrele. L’organo a canne è datato 1765. 

Chiesetta di Santa Lucia

Nel centro abitato si trova, confusa nel caseggiato medievale, la piccola chiesa dedicata a Santa Lucia protettrice della vista.
Al centro dell'altare, incorniciato fra gli stucchi, è collocato un dipinto della Santa, del XVII secolo. Santa Lucia è ritratta in un originale e inedito fiero atteggiamento con la mano sinistra al fianco e con la destra che sorregge una cordicella da cui pendono due occhi tenuti a mezz'altezza con il braccio piegato.

 

Chiesa di Santa Maria dello Spino

Nel borgo di Santa Maria sorge la chiesa di Santa Maria dello Spino precedentemente denominata “Santa Maria a Luquiano” o “ Luquianum” o “Lucusanum”,  sorta probabilmente sui ruderi di un tempio romano. L'antico nome deriva da “Lucus Dianae”, ossia bosco dedicato alla divinità romana Diana Efesina

 

La chiesa si mostra oggi con il suo semplice portale “a tutto sesto”. All’interno conserva due larghe pietre lavorate, un’acquasantiera che reca sul fondo un rilievo e un grande capitello corinzio in marmo bianco proveniente, probabilmente, dal vicino luogo di culto di Colle San Giorgio risalente al periodo italico. 

 

Chiesa rurale di San Donato

Fuori dell’abitato, nei pressi del cimitero, sorge la chiesa “rurale” di San Donato. Sono interessanti i  due altari in stile barocco risalenti al XVII secolo e  il tetto, le cui pianelle di terracotta sono  dipinte con vari motivi. Su una di esse si legge la data del 1696. 

APPIGNANO

È un antico borgo che conserva ancora intatte le sue caratteristiche di abitato incastellato medievale del XV secolo con unatorre quadrata, di probabile origine longobarda, inglobata nel Palazzo Pensieri. L'abitato, situato a pochi kilometri di distanza da Castiglione Messer Raimondo, ne costituisce una frazione e ne ha seguito, nel tempo, le vicende storiche.
Il nome Appignano è di origine romana e deriva dal latino apud Janum, vicino a Giano. La denominazione indica, quindi, che l’antico borgo fu costruito nei pressi di un tempio dedicato al dio Giano, il più importante tra gli dei nel culto dei popoli Italici e Romani.
Negli scavi archeologici eseguiti, a breve distanza dal centro abitato, è stata riportata alla luce una tomba ipogea femminile all'interno della quale sono stati rinvenuti tre ciondoli di bronzo a batocchio, un’armilla in bronzo ed un tubetto di bronzo traforato per collana. Nella stessa località sono stati ritrovati un frammento di cippo calcareo  con una scritta monca in lingua latina, alcune lastre di pietra albana ed un lastrone più grande senza iscrizione.
Luigi Sorrichio, studioso atriano di fine ottocento e inizio novecento, classifica i resti scoperti come coevi a quelli di Pretara presso Atri e quindi databili al VII-VI sec. a. C.
La più antica testimonianza scritta di Appignano, risale al 21 luglio 951 quando Lupo, figlio del Conte aprutino Maifredo, permuta con Elia, Abate del Monastero di S. Angelo a Barrea, 130 moggia di terreno di sua proprietà nell’ascolano con 100 moggia in località Apoianum, di proprietà del monastero.
Nel XII secolo Apignanum è citato sul Catalogus Baronum che ne documenta, con Castillionem, l'appartenenza a Galgano di Collepietro.
Altre testimonianze sono riscontrabili negli scritti dello storico Flavio Biondo  vissuto tra il 1392 e il 1463 che, nella sua opera “Italia illustrata”, cita il Castello di Pignanum tra quelli ubicati sulla destra del fiume Selino.
Anche lo storico domenicano F. Leandro Alberti nella sua opera “Descrittione di tutta Italia”, pubblicata nel 1553, cita il castello di Pignano, tra quelli ubicati sulla destra del fiume Sino (Fino).
Nella Galleria delle Carte Geografiche, realizzata in Vaticano da Antonio Danti di Perugia negli anni 1580-1583, è rappresentato il Castello di Appignano. 
Dal 1439 Appignano passa fra i possedimenti degli Acquaviva i quali lo cedono nel  1529  a Sergio Frezza cui succederanno il figlio Giovanni Girolamo e il nipote Giovanni Francesco. In quegli anni, fino alla metà del XVII secolo, la popolazione si attesta mediamente sui 40 fuochi. Le vicissitudini finanziarie della famiglia Frezza comportano la cessione del feudo ad Alessandro Benvenuti. La famiglia Benvenuti ne resta proprietaria fino al 1617 quando Appignano viene ceduta a Cesare Scorpioni.
Il 12 settembre 1712, Nicolantonio Castiglione, Barone di Appignano richiede l'autorizzazione per la compilazione di un nuovo Catasto, in quanto precedentemente sono intervenute cessioni di beni che hanno modificato radicalmente le proprietà riportate sull'allora vigente catasto. La Regia Camera autorizza la richiesta ed il 17 febbraio 1713, il Governatore Nicola Baroni inizia il lavoro coadiuvato dai due apprezzatori e stimatori Francesco Di Falcio e Giovan Domenico di Francesco eletti dal Gran Consiglio dell’Università. Ogni sera, fino al 30 giugno, il pubblico balivo Sebastiano Di Donato, legge i bandi per invitare i proprietari ad iscriversi nel Catasto e dare conto delle loro proprietà da assoggettare a tassazione.

Il nuovo Catasto si compone di 70 carte. Vi sono iscritte 68 persone tra i quali il Barone Nicolantonio Castiglione ed il Marchese Francesco Maria De Petris. Il territorio di Appignano risulta diviso in 65 contrade e comprende i Feudi di S. Clemente e Casalorito.

S. Pietro Apostolo è la chiesa parrocchiale di Appignano. Risale al XII secolo e fu ampiamente ristrutturata tra il 1735 e il 1780 con opere a rilievo in stucco sulle pareti laterali. 

Nella chiesa sono conservate tele, attribuite al pittore atriano Giuseppe Prepositi, probabile allievo del maestro napoletano Francesco Solimena. Le opere sono realizzate negli anni 1769-1770 su commissione della Confraternita del Ss. Rosario.
Fuori delle mura sorge la Chiesa della Madonna del Carmine, eretta tra il1855 e il 1858  su una più antica Cappella per ringraziare la Madonna della protezione data alla popolazione durante la  peste del 1855. Tracce dell’edificio più antico si riscontrano in un’acquasantiera a calice in pietra.

Chiese oggi scomparse sono quelle diSan Michele, citata nella Bolla di Papa Lucio II del 10 giugno 1184 e  quella di Santa Maria Lauretana facente parte del convento che, secondo la leggenda, fu fondato nel 1215 da S. Francesco venuto nella Valle Siciliana a dirimere i dissidi insorti tra i feudatari locali.
Il Monastero faceva parte della "Custodia Pennese". Era composto da sei stanze al piano inferiore e sei su quello superiore con un chiostro quadrato ed un doppio loggiato. Resti dell'antico complesso sono ancora visibili.
Nel catasto del 1713 sono descritte otto fontane. Ne resta una, mentre le altre vengono smantellate a seguito della realizzazione dell'acquedotto pubblico nel 1923.
Nel 1926 viene portata l'energia elettrica e fino alla prima metà del  Novecento sono in funzione due frantoi , di cui uno a trazione animale. Si contano tre mulini di cui uno ad acqua e due elettrici, uno di questi è rimasto in attività fino agli anni settanta.

Bibliografia

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F. L.F. Blondus, Roma ristaurata et Italia illustrata, Venezia 1553.

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L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, Giovan Maria Bonelli, Venezia 1553.

I. Addari, Tossicia tra storia e mistero, Comune di Tossicia, S. Gabriele 2010.

Ultimo aggiornamento: 26/01/2022

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